Wystan Hugh Auden 1907
Wystan Hugh Auden (York, 21 febbraio 1907 – Vienna, 29 settembre 1973) attraversa il Novecento poetico come un sismografo: registra scosse politiche, morali e psicologiche, le traduce in forme classiche e sperimentali, e allo stesso tempo mette in discussione le pretese della poesia di “cambiare il mondo”. Cresciuto in un ambiente colto e scientifico, formatosi a Oxford, entra presto nel gruppo dei cosiddetti “poeti degli anni Trenta” (con Spender, Day-Lewis, MacNeice), segnando la stagione in cui la lirica inglese prova a rispondere con urgenza politica all’ascesa dei totalitarismi e all’ombra della guerra. Il viaggio in Spagna durante la Guerra civile e l’impegno antifascista ne fanno una figura pubblica, ma già allora la sua intelligenza critica rifiuta la poesia-propaganda: l’indignazione deve piegarsi al controllo formale, la testimonianza alla complessità morale.
Nel 1939 Auden si trasferisce negli Stati Uniti (cittadinanza dal 1946): è una svolta non solo geografica, ma poetica. Il registro si fa più meditativo, filosofico e religioso; rientra nella Chiesa anglicana, frequenta letture teologiche (Kierkegaard, Agostino, Niebuhr), rielabora Freud in chiave morale, e sviluppa un’idea di responsabilità individuale che lo allontana dall’ottimismo ideologico dei Trenta. Le stagioni americane – New York, poi Ischia e infine Kirchstetten, in Austria – consolidano un’opera vastissima: poesie, saggi (cruciale The Dyer’s Hand), libretti d’opera (con Chester Kallman, per Stravinsky e Henze), oratori, satire in versi e prose di viaggio.
La doppia anima: pubblico e privato, politico e teologico
Auden è il poeta che più a fondo affronta la crisi del moderno: alienazione urbana, burocrazia, tecnologia, guerra, ma anche desiderio, amore, amicizia, fallibilità individuale. La sua è una poesia “diagnostica”: adotta il lessico della psicoanalisi e della clinica, l’ironia del moralista settecentesco, la parabola religiosa. In componimenti come Musée des Beaux Arts l’indifferenza quotidiana al dolore altrui – messa in scena attraverso Bruegel – diventa figura del nostro tempo: la sofferenza accade “a lato” delle occupazioni ordinarie. In Funeral Blues il lutto si fa voce di un dolore nudo e comunicabile, prova della sua capacità di parlare “in chiaro” senza perdere complessità. Con September 1, 1939 (che più tardi rivedrà con severità autocritica), Auden raduna paura e disincanto all’inizio della guerra: è un poema-cornice dell’epoca, ma già problematizza il ruolo della poesia nella polis.
Dopo il 1939 il suo baricentro si sposta dall’urgenza politica alla indagine morale e teologica. For the Time Being (un oratorio di Natale), Nones e le Horae Canonicae rileggono il tempo storico alla luce del tempo liturgico: il quotidiano viene messo in relazione con il dramma dell’incarnazione e con la struttura dell’attenzione religiosa. Non è una conversione ornamentale: Auden cerca un linguaggio capace di misurare la distanza tra colpa e grazia, tra eros e agape, tra desiderio e responsabilità. Il risultato non è edificante in senso edificatorio, ma scrupoloso, spesso ironico, sempre anticantorile rispetto a ogni retorica salvifica.
La forma come etica: metri, generi, registri
Pochi poeti del Novecento padroneggiano la tecnica come Auden. Alterna metri tradizionali e forme chiuse (sonetto, canzone, sestina, villanelle), ballate pseudo-popolari, strofe sperimentali e un libero verso sempre sorvegliato. L’“Auden tone” nasce dal montaggio di registri: colloquiale e dotto, clinico e affettivo, proverbiale e saggistico. Il suo orecchio metrico accoglie rime piene e imperfette, catene di assonanze, ritmi parlati che tendono la lingua senza spezzarla. Questa abilità non è virtuosismo fine a sé stesso: è scelta morale. La forma limita, ordina, discute l’impulso dell’io; obbliga il poeta all’attenzione, alla revisione, alla responsabilità della parola. Non stupisce che Auden riveda spesso i propri testi, talora espungendoli dalle raccolte successive: rifiuta la canonizzazione di versi che giudica retorici o moralmente equivoci.
The Age of Anxiety (1947), poema vincitore del Pulitzer, è esemplare: in forma di ecloga moderna ambientata in un bar di New York, quattro personaggi dialogano in un paesaggio mentale/urbano che rende la “spaesatezza” del dopoguerra. La scelta di una forma pastorale per l’epoca della metropoli è un paradosso deliberato: un genere antico misura il battito irregolare del presente. In The Shield of Achilles (1955) l’omerico scudo di Achille viene rivisitato in chiave spietatamente contemporanea: al posto dei miti eroici affiorano paesaggi burocratici e atroci, in cui innocenza e violenza si toccano. È la critica più lucida all’“immaginario eroico” del Novecento.
Politica, eros, religione: tre tensioni mai risolte
Tre vettori percorrono l’opera audeniana. Il politico: dalla militanza giovanile alla disillusione adulta, con un costante rifiuto della semplificazione ideologica. L’eros: la poesia registra la gioia e il rischio dell’amore, la sua dimensione carnale, la precarietà del legame (centrale la relazione con Chester Kallman), e interroga la possibilità di fedeltà in un mondo mobile. Il religioso: non dogmatismo, ma domanda di senso, che riformula la colpa in termini agostiniani e la fraternità in termini paolini, senza sottrarsi al dubbio. Queste tre linee non convergono in un sistema, ma in una pratica poetica che accetta il conflitto come condizione della verità.
Opere e traiettorie: dall’esordio alla maturità
L’esordio con Poems (1930) mette subito in scena paesaggi industriali, linguaggi tecnici, metafore urbanistiche: il moderno come laboratorio morale. Another Time (1940) raccoglie testi di transizione – tra Europa e America – e contiene alcuni dei suoi capolavori brevi. The Age of Anxiety consacra il poeta-moralista della nuova epoca; Nones (1951) e The Shield of Achilles (1955) segnano la maturità meditativa. Le raccolte tardoamericane (Homage to Clio, About the House, City Without Walls) alternano alti lirici e leggerezza arguta, mentre i libretti d’opera (da The Rake’s Progress con Stravinsky a The Bassarids con Henze, in collaborazione con Kallman) mostrano il suo talento drammaturgico: controllo della voce, senso del tempo, ironia strutturale.
La sua attività saggistica culmina in The Dyer’s Hand: riflessioni su lettura, critica, ruolo del poeta, con un principio-chiave che ha fatto scuola – la poesia non “produce eventi” nella storia, ma trasforma la coscienza di chi legge, agendo sul piano della percezione e del giudizio.
Ricezione, revisioni, eredità
Auden è stato amato e contestato. In patria gli si rimproverò il trasferimento in America; altrove gli si imputò una certa “freddezza clinica”. Ma proprio questa distanza – mai cinica – gli consente di dire l’etico senza retorica. Emblematico il suo rigore autocritico: correzioni drastiche, ripensamenti (fino a rinnegare versi troppo assertivi), una diffidenza di principio verso il monumentalismo. La lezione che lascia ai poeti successivi (da Larkin a Merrill, da Brodsky a Heaney in forme diverse) è duplice: maestria formale e intelligenza morale. La poesia può essere insieme canzone e saggio, elegia e diagnosi, se accetta la disciplina della forma e il pudore dell’enunciazione.
Valore letterario
La grandezza di Auden risiede nella convergenza di tre competenze: un orecchio tecnico infallibile, una mente critica capace di filosofia e teologia senza specialismi oscuri, e una voce che sa essere pubblica senza diventare tribuna. La sua opera interroga le angosce e le speranze dell’uomo contemporaneo con un linguaggio accessibile e stratificato: ironico ma non derisorio, sentimentale ma non sentimentalistico. Se la poesia, come scrisse a proposito di Yeats, “non fa accadere nulla” in senso politico diretto, fa accadere molto nella coscienza: educa l’attenzione, affina il giudizio, incrina le menzogne. È questa, in ultima analisi, la sua etica della forma – e la ragione per cui Auden rimane, a pieno titolo, uno dei classici del XX secolo.

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